Esistono parole
che frequentemente utilizziamo senza averne la piena coscienza del suo
significato e delle sue più alte accezioni. Una di queste è “accoglienza”.
Un sostantivo la
cui etimologia si rintraccia nel latino co-ligere: cogliere; co - insieme e legere
- raccogliere.
L'accoglienza è un'apertura: ciò che così viene raccolto o ricevuto viene fatto entrare - in una casa, in un gruppo, in sé stessi.
Accogliere vuol dire mettersi in gioco, e
in questo esprime una sfumatura ulteriore rispetto al supremo buon costume
dell'ospitalità - che appunto può essere anche solo un buon costume. Chi
accoglie rende partecipe di qualcosa di proprio, si offre, si spalanca verso
l'altro diventando un tutt'uno con lui. E anche se l'accoglienza di un vecchio
amico siciliano può parere aliena rispetto all'accoglienza del conoscente
giapponese, rimangono il medesimo fenomeno, diverso solo perché diverse sono le
persone e le culture e il loro modo di aprirsi, il loro modo di fare entrare.
Così possiamo accettare che non esiste un'accoglienza assoluta o universale. Ma solamente la propria accoglienza.
Accoglienza nel
suo significato più alto e puro non può che esprimersi ed esercitarsi sul piano emotivo. Accoglienza
piena potrà concretizzarsi solo ed esclusivamente quando saremo in grado di
riconoscere, interpretare e accettare tutte le emozioni nonostante la loro diversità e le loro sfumature, siano esse positive o
negative, dentro e intorno a noi.
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